Vino
Alle origini del vino…
Alle origini del vino…
Giuseppina Carlotta Cianferoni
La storia del vino è un po’ la storia stessa dell’umanità, testimoniata dalle fonti scritte e figurative, ma ancor più dai recenti strumenti dell’investigazione archeologica, dalla biologia molecolare all’analisi del DNA, che hanno permesso di far risalire ad epoche remote, circa 7.000 anni fa, i primi tentativi di acclimatare la vite eurasiatica nei luoghi dove hanno avuto origine le civiltà gravitanti sul bacino del Mediterraneo.
Rimedio curativo, lubrificante sociale, sostanza stupefacente e merce di scambio, il vino acquisisce ben presto un ruolo centrale nei culti religiosi, nella farmacopea, nell’economia e nella vita sociale di molte civiltà antiche; non solo, presso tutti i popoli dell’antichità è sempre stato ritenuto, insieme all’olio, uno dei simboli più evidenti della ricchezza.
Già seimila anni fa, i Sumeri simboleggiavano con una foglia di vite l’esistenza umana ed anche gli Ebrei dell’Antico Testamento, che attribuivano a Noè la piantagione della prima vigna, consideravano la vite “uno dei beni più preziosi dell’uomo” (1 Re), ed esaltavano il vino (Salmi). Si legge nell’Odissea (Il, 426-432) che la sala della reggia di Itaca, dove erano conservati i tesori di Ulisse, era… “che rallegra il cuore del mortale”ampia, dove oro e bronzo giacevano a mucchi, e vesti nei cojani, e olio fragrante in abbondanza: e orci di vino vecchio, dolce da bere, stavano, pieni di schietta, divina bevanda, disposti in fila lungo la parete … “.
Nel mondo greco il vino era ritenuto un dono degli Dei e tutti i miti sono concordi nell’attribuire a Dioniso, il più giovane figlio immortale di Zeus, l’introduzione della coltura della vite tra gli uomini, tanto che Dioniso, il dio del vino, fu oggetto di culto non solo presso i Greci ma anche in Etruria, dove era identificato con la divinità agreste Fufluns e quindi nel mondo romano, dove era conosciuto come Bacco e ricollegato a Liber, antica divinità latina della fertilità.
La pratica della viticoltura vanta origini antichissime: la vite selvatica eurasiatica è documentata in un’area di circa 6.000 km², dal Mar Nero all’Anatolia orientale, dalla Siria alla Spagna, passando per la Grecia e l’Italia. Già nel VI millennio a.C., in un sito neolitico dell’Iran nord-occidentale, Hajji Firuz Tepe (5400-5000 a.C.), sono stati rinvenuti recipienti ceramici con all’interno depositi che le analisi chimiche hanno sorprendentemente rivelato costituiti da acido tartarico, presente negli acini d’uva e noto componente del vino, e da resina di Terebinto, di cui è attestato l’uso come antiossidante per la conservazione del vino. Gli stessi residui, oltre a tracce della fermentazione da succo d’uva a vino, sono documentati anche nel sito di Godin Tepe sul Tigri (3500-3100 a.C.) dove sono stati rinvenuti anche orci della capienza da 30 a 60 litri, oltre a recipienti stretti e dal lungo collo, atti alla conservazione del vino, sigillati con tappi in argilla cruda per evitarne la trasformazione in aceto.
La coltivazione della vite è anche testimoniata da non pochi documenti figurati: fra i tanti è degna di nota la pittura di una tomba tebana della XVI dinastia (1552-1306 a.C.), dove sono rappresentati due contadini che colgono grappoli d’uva da una pergola, mentre altri quattro lavoranti procedono alla pigiatura delle uve in un grande tino ed un loro compagno, chino sotto le cannelle, raccoglie nei recipienti il mosto appena spremuto. In alto si nota una ordinata fila di anfore nelle quali, una volta completata la fermentazione, veniva riposto il vino. Da questa raffigurazione si deduce quindi che in Egitto, già nel II millennio, era diffuso il sistema di coltivazione “a pergola”.
Un altro tipo di coltura ugualmente radicato, soprattutto in Grecia, era l’allevamento della vite con ceppo basso, per sfruttare il calore emanato dal suolo, senza sostegno o con sostegno a paletto; così era la vigna raffigurata sullo scudo di Achille: ” …una vigna stracarica di grappoli, bella, d’oro: era impalata da cima a fondo di pali d’argento… un solo sentiero vi conduceva per cui passavano i coglitori a vendemmiare la vigna; …in canestri intrecciati portavano il dolce frutto ” (Iliade XVIII 561-565).
Le viti venivano piantate di preferenza in aree collinari, ben esposte al sole, e i tralci dovevano essere periodicamente potati, di regola ogni anno.
Moltissimi erano i vini prodotti nel bacino del Mediterraneo; la qualità del vino dipendeva dall’esposizione del vigneto, dalle caratteristiche delle piante e dai metodi di coltivazione: sappiamo ad esempio che, secondo i romani, le vigne basse davano vini mediocri e che, invece, i grandi vini italici erano generalmente ricavati da viti in arbusto (arbustivum genus).
Per quanto riguarda la vinificazione è testimoniato l’uso di una tecnica molto simile a quella utilizzata fino quasi ai nostri giorni: essa prevedeva, in breve, la raccolta e la pigiatura dei grappoli in larghi bacini, la torchiatura dei raspi e la fermentazione del mosto in recipienti lasciati aperti fino al completo esaurimento del processo. L’uva veniva di solito tutta raccolta per la vinificazione, ma poteva accadere che una parte del prodotto fosse messo in vendita ancora sulla pianta.
Fig. 2 Kylix attica a figure nere con satiri che vendemmiano, 530-520 a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale
A differenza degli altri lavori agricoli, la vendemmia era un’attività festosa, che non apparteneva propriamente alla sfera del lavoro quotidiano, ma trasformava la condizione umana e la poneva in contatto con il divino. E’ per questo che, almeno nel mondo greco, la maggior parte delle raffigurazioni relative alla produzione del vino, ed in particolare alla vendemmia, hanno come protagonisti Dioniso ed il suo seguito di satiri e menadi, che sono spesso rappresentati mentre riempiono i canestri di grappoli d’uva o nelle altre fasi del trattamento dell’uva. Su una kylix attica a figure nere del Museo di Firenze (fig. 2), ad esempio, è rappresentata un”‘affollata” scena di vendemmia: satiri vendemmianti riempiono di grappoli canestri di vimini. Analogamente, su un cratere a figure rosse, tre satiri sono impegnati, alla presenza di Dioniso, nella spremitura dell’uva. (fig. 3)
Fig.3 Cratere a colonnette attico a figure rosse. Lato A: scena di pigiatura dell’uva dentro un pigiatoio di legno, alla presenza di Dioniso, Pittore di Firenze, 450 a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale
Lo strumento usato per cogliere i grappoli era una sorta di falcetto, lafalx vinitoria, ma si potevano utilizzare anche le mani nude. L’uva veniva deposta in ceste e quindi portata alla pigiatura che, inizialmente, con ogni probabilità, era effettuata nello stesso vigneto, in rozzi pigiatoi scavati nella pietra, dove venivano ammassate le uve e raccolto il mosto.
In Palestina è stato ritrovato un pigiatoio risalente all’età del Bronzo. Anch’esso tagliato nella roccia, era composto di due parti, comunicanti tra loro: nella parte più alta veniva collocata l’uva per la pigiatura, mentre, in quella più bassa, si raccoglieva il mosto che, successivamente, era riposto negli otri dove continuava a fermentare. Quando poi le fattorie si dotarono di veri e propri impianti di vinificazione, la pigiatura delle uve cominciò ad essere realizzata all’aperto, anche sotto una tettoia o un porticato, all’interno di un’area in muratura, spesso rivestita di argilla o di calce, detta calcatorium, dal verbo calcare, dal momento che tale operazione veniva effettuata con i piedi.
A Creta, sempre nell’età del Bronzo, è attestato l’uso di pigiatoi in ceramica a forma di tinozza, provvisti di un versatoio, sotto il quale venivano posti i contenitori per la raccolta del mosto. I Greci invece, in epoca arcaica, utilizzavano soprattutto pigiatoi mobili in legno trasportabili nei vigneti, come dimostrano le scene raffigurate sui vasi attici a figure nere e rosse del VI e V sec. a.C.
Al termine della pigiatura, mentre il mosto passava nei recipienti di fermentazione, le vinacce venivano portate al torchio per una seconda spremitura. Il liquido così ottenuto seguiva il mosto nei dolia di fermentazione, ultimata la quale, il mosto-vino veniva travasato nelle anfore e nei dolia.
Maggiori notizie si hanno per il mondo romano: l’uva veniva raccolta in una vasca (lacus vinarius) dove si procedeva alla pigiatura, quindi, una volta colmata questa vasca, si aspettava che il mosto si separasse dalle vinacce e, mentre queste ultime, quando affioravano, venivano torchiate, il mosto passava in una vasca sottostante. In questo secondo lacus, dove poi confluiva anche il mosto delle vinacce torchiate, aveva luogo la fermentazione cosiddetta tumultuosa. Dopo sette o otto giorni si travasava il mosto in grossi dolia interrati dove si completava il processo di fermentazione.
Il vino più ordinario veniva consumato o venduto appena limpido, attingendolo direttamente dai dolia (vinum doliare), quello di qualità o destinato alla vendita era invece travasato in anfore (vinum amphorarium) , dove subiva una serie di trattamenti mirati a garantirne la corretta conservazione. Comunissimo era l’uso di esporre le anfore al calore e al fumo in appositi locali (apotheca e fumarium) oppure quello di aggiungere al vino acqua di mare o comunque salata, secondo un uso già diffuso in Grecia dove si pensava che l’acqua di mare rendesse il vino più dolce e servisse ad evitare “il mal di testa del giorno dopo”. A seconda delle diverse stagioni il vino poteva essere raffreddato con la neve o scaldato; diffusissimo era inoltre l’uso di addolcirlo con il miele e profumarlo con petali di rosa e di viola, cedro, cannella e zafferano.
I ritrovamenti di vinaccioli di vite selvatica in molti abitati dell’Italia centro-settentrionale forniscono le prove che, in quest’area, la vite, nella sua forma selvatica, è stata oggetto di raccolta da parte dell’uomo già dal Neolitico antico e che i suoi frutti sono stati intenzionalmente consumati almeno a partire dalla media età del Bronzo, periodo cui sembrano risalire anche i primi tentativi di messa a coltura della pianta.
Contemporaneamente infatti cominciano ad essere attestati anche semi di vite domestica, ed è quindi probabile che, sempre in questo periodo, si debbano collocare i primi tentativi di coltivazione della vite, pratica che si diffonderà a partire dalla fine dell’età del Bronzo (fine II – inizi I millennio a.C.), quando diventeranno sempre più frequenti i rinvenimenti di vinaccioli attribuirli alla specie sia selvatica che coltivata, indicando una raccolta ormai sistematica del frutto della vite.
Alla luce della documentazione disponibile pare altresì evidente che bisogna giungere all’inizio dell’età del Ferro per disporre, in Etruria e nel Lazio, di una documentazione sia archeologica che archeobotanica sicura dell’esistenza della vite domestica e quindi della diffusione ormai generalizzata della pratica della sua coltivazione.
Mancano invece conferme archeologiche, per questo stesso periodo, di un uso rituale del vino, non essendo atte stata nei corredi la presenza di recipienti e utensili tradizionalmente legati alla produzione e al consumo di questa bevanda.
E’ quindi importante precisare non solo quando è cominciata la coltura della vite, ma anche, e direi soprattutto, quando le pratiche di coltivazione si sono affinate e perfezionate, sono cambiati i modi di produzione e il consumo del vino ha cominciato ad assumere una valenza rituale per le nascenti aristocrazie.
I dati archeologici sono chiari in proposito: è solo nell’VIII sec. a.C. che avviene questo radicale cambiamento. Il panorama dei ritrovamenti cambia completamente e nei corredi più ricchi delle necropoli etrusche cominciano ad essere attestate importazioni greche e, allo stesso tempo, compaiono i primi vasi legati al consumo del vino.
E’ quindi evidente che la “responsabilità” di questo cambiamento è da imputarsi all’apporto greco. I corredi deposti nelle necropoli etrusche dell’VIII e poi del VII sec. a.C., quindi nel pieno dell’età orientalizzante, documentano, proprio in corrispondenza dell’acquisita continuità dei contatti con il mondo greco, l’introduzione nella società aristocratica etrusca del rituale “omerìco” del simposio. Il consumo del vino, regolato da precise norme come in Grecia, viene ad assumere così il valore di un consumo privilegiato, esclusivo e quasi divino, appannaggio,come in Grecia, delle famiglie aristocratiche.
Già nel corso del VI sec. a.C., la distribuzione di anfore vinarie etrusche e di kantharoi di bucchero nel Lazio, in Campania e nella Sicilia orientale, in Sardegna e in Corsica e, a nord, sulle coste meridionali della Francia e della Spagna, è indice non solo del volume di traffici intrapresi, ma anche dell’intensità di una produzione ormai bene avviata che produce eccedenze. Almeno nella fase iniziale, il fondamento di questo commercio sembra sia stato sostanzialmente lo scambio di generi di necessità e/o di prestigio, come il vino, contro metalli o prodotti semilavorati.
Vino etrusco speziato – La battaglia di Cuma
Nel cuore del IV secolo a.C., un cambiamento epocale segnò il destino dell’Etruria. Roma, la giovane e ambiziosa città, iniziò ad espandersi, conquistando una città dopo l’altra delle terre etrusche. Fino a quel momento, l’Etruria era un popolo di grande creatività e civiltà, un popolo che aveva costruito una società fondata su diritti e doveri, mirata al benessere collettivo. Ma i venti della guerra cominciarono a soffiare più forti, portando con sé la fine di un’era.
La battaglia di Cuma. Era il 474 a.C., e quel giorno ero lì, in prima linea, al fianco del mio inseparabile amico Pindaro. La sera prima, a bordo di una nave della flotta etrusca, mentre ci preparavamo per la battaglia decisiva contro i greci di Siracusa, ci venne un’idea audace.
Con l’aiuto del nostro simposiarca, decidemmo di sollevare i kantaros in un brindisi che sarebbe rimasto nella memoria. Un brindisi che non fosse solo di forza, ma di spirito e coraggio: un vino etrusco speziato, arricchito con cannella, chiodi di garofano, miele e allungato con l’acqua salata del mare.
Il sapore di quella miscela, dolce e pungente insieme, rimase nelle nostre bocche come una promessa di vittoria. Ma il giorno successivo, la tragedia colpì senza pietà. Nonostante l’arrivo dei nostri alleati cartaginesi, accorsi a difenderci con il cuore valoroso, la battaglia fu una disfatta. L’odore del nostro vino speziato si mescolò presto al fumo e al ferro del luogo di battaglia, ma non fu sufficiente a cambiare le sorti del conflitto. Fu in quel momento che cominciò il lento, inesorabile declino del nostro popolo, mentre il piccolo centro etrusco chiamato Roma cresceva in potenza e gloria.
Ancora oggi, il mondo subisce le conseguenze di quell’epocale svolta, con Roma che si erge come capitale indiscussa, un’eredità che ci è stata tolta. Eppure, nel silenzio della memoria, il nostro vino speziato continua a raccontare la storia di chi eravamo e di chi avremmo potuto essere.
Attrezzature per la vinificazione
Per produrre il vino è necessaria un’attrezzatura minima che prima consenta di pigiare i grappoli per farne uscire il succo e, successivamente, di spremere i resti della pigiatura per estrarne la parte liquida residua, ancora abbondante. Gli strumenti per compiere le due operazioni possono essere elementari, ma già nell’antichità si sono perfezionati fino a raggiungere un grado di efficacia tale da non richiedere poi significativi mutamenti fino al secolo scorso.
Nell’età del Bronzo la spremitura dell’uva era effettuata pigiando con i piedi i grappoli all’interna di una vasca che poteva essere scavata nella roccia, come accadeva in Palestina, o in tinozze di ceramica provviste di un versatoio, dal quale il mosto cadeva in un orcio, come si vede in diversi impianti produttivi scavati a Creta.
Anche in Grecia c‘erano pigiatoi di ceramica e di pietra dove si pestava l‘uva, ma in epoca arcaica accanto a questi si usavano altri strumenti di legna, facilmente trasportabili, che erano impiegati nel vigneto, come mostrano alcune scene riprodotte su vasi attici a figure nere e a figure rosse del VI e del V secolo a.C.
Questo genere di pigiatoio di legno era costituito da una superficie piana, un disco, forse con una bassa parete o una canaletta lunga il margine per convogliare il mosto al versatoio. Questa base era sollevata da terra per mezzo di alte zampe e il liquido colava in un grosso contenitore pasto sotto il versatoio. Sul disco di legno sembra che fosse appoggiata una sorta di cesta provvista di manici che conteneva uva o vinacce già pigiate altrove, come sembra suggerire la scena su un cratere attico a figure rosse dalla Puglia. Qui un gruppo di satiri è intento a vinificare: sulla destra uno pigia l‘uva dentro a una vasca dalle pareti abbastanza alte, sostenendosi a due lacci che pendono dall‘alto; in mezzo al quadro un altro satiro schiaccia con i piedi una cesta a un sacco provvisto di due prese, forse contenente vinacce, appoggiato sopra al pigiatoio di legno di cui sono evidenti i chiodi che fissano le zampe; dal versatoio il mosto cola abbondante in un contenitore del quale si occupa il terzo satiro, che parta un catino forse per sostituire quello riempito di mosto.
Il cratere attico a figure rosse in mostra presenta una scena di spremitura presieduta da Dioniso dove un satiro utilizza lo stesso pigiatoio di legno sul quale è poggiata ancora una cesta con maniglia ben in vista.
Un particolare pigiatoio di terracotta è stato trovato nella fattoria etrusca di Poggio Bacherina, nell‘agro di Chiusi, distrutta da un incendio agli inizi del I secolo a.C. Il contenitore ha la forma somigliante a una grossa scarpa, con una larga imboccatura (cm 50 ca.) e una breve punta, forata nella parte inferiore per far calare il mosto. In una stanza vicina al pigiatoio, erano stivati quindici orci, all‘interna di molti dei quali rimanevano numerosi vinaccioli a indicare il contenuto. In età imperiale, quando ormai i pigiatoi sono costruiti in muratura, la forma dei sarcofagi a vasca, largamente impiegati, richiama ancora la tinozza con profila svasato, spesso provvista di colatoi, tradizionalmente usata per pigiare l‘uva. Sono le stesse scene di vendemmia raffigurate su alcuni sarcofagi che ne illustrano la funzione: i pigiatoi hanno per lo più forma ovale e, talora, protomi di leone a fauci aperte donde il mosto cola in altri vasi.
Scarse sono le testimonianze sull’uso di torchi da vino in età arcaica. Probabilmente in molti casi ci si limitava a fare pressione con tavole o pietre direttamente sulle vinacce o sulle ceste che le contenevano, come quelle poste sui pigiato i di legno raffigurati sulla ceramica attica. In alternativa si poteva usare il torchio a torsione che consta di un semplice sacco e di due aste di legno, ben documentato in Egitto.
L’uso di un torchio a leva, montato su una base di legno analoga ai pigiatoi, è rappresentato per la prima volta su una coppa greca conservata a Boston: la cesta contenente le vinacce è premuta da un robusto tronco al quale sono appesi due grossi sacchi contenenti pietre e uno degli stessi operatori, mentre il mosto cola dentro a un cratere a colonnette. Se tali erano i primi torchi si comprende facilmente perché non ne siano sopravvissute molte tracce: erano costituiti interamente di legno o di materiali deperibili. Tuttavia proprio nella valle dell’Albegna, un’area controllata da Vulci che già nel VI secolo a.C. produceva in quantità vino per l’esportazione in Gallia, lo scavo di una fattoria etrusca ha rivelato la presenza di un torchio per vino simile a quello descritto di sopra: due basi di pietra e una buca per i montanti di legno, un orcio interrato per raccogliere il mosto e almeno altri sei per conservare il vino.
All’inizio del Il secolo a.c. si datano i torchi da vino che testimoniano l’avvenuto passaggio a una tecnologia evoluta, adatta a produzioni massicce. Catone descrive nel suo trattato sull’agricoltura un impianto di vinificazione esemplificato in diverse ville rustiche: un pavimento di coccio pesto, che serve anche da pigiatoio, è la base del torchio a leva mossa da un argano, una piccola vasca di decantazione raccoglie il mosto che poi è raccolto in numerosi orci.
Sono strutture del genere che permettono lo straordinario sviluppo della produzione vinicola dell’Italia centromeridionale tra la metà del III e l’inizio del I secolo a.C.
Un passo dell’opera enciclopedica di Plinio (Naturalis Historia, XVIII, 317) ricorda con precisione la comparsa del torchio a vite, detto “greco”, che sarebbe stato introdotto intorno al 25 a.C., mentre un genere di pressa più piccola, in cui la vite senza leva comprime direttamente le vinacce, compare alla metà del I secolo d.C. Nella pratica i torchi a leva e ad argano rimasero per tutta l’antichità i più diffusi per la buona produttività associata alla semplicità di costruzione e d’uso.