Ingredienti e curiosità
Portulaca Oleracea
Conosciuta comunemente come porcellana o porcacchia, questa pianta dal nome curioso affonda le sue radici nella storia antica, essendo già apprezzata nell’Antico Egitto e in tutto il bacino del Mediterraneo. Non solo veniva utilizzata per la sua versatilità culinaria, ma anche per le sue straordinarie proprietà benefiche, che ne hanno fatto un alleato prezioso nei secoli. Plinio il Vecchio, Columella e Varrone la celebravano non solo per il suo gusto, ma anche per i suoi effetti afrodisiaci. Nel Medioevo, la sua coltivazione era diffusa, segno della sua importanza.
Questa pianta, ricca di potere, è oggi riconosciuta per le sue numerose virtù. Le sue proprietà diuretiche e depurative sono solo l’inizio: la portulaca è una fonte preziosa di acidi grassi polinsaturi omega-3, che agiscono come scudi contro le malattie cardiovascolari, aiutando a ridurre il colesterolo LDL e i trigliceridi, favorendo una circolazione sanguigna fluida e sana.
La Portulaca oleracea trova il suo posto anche nella nostra cucina, dove viene servita in diverse varianti creative:
- Cruda, come una gemma verde nelle misticanze fresche
- Leggermente saltata con olio e aglio, per esaltare il suo gusto unico
- Conservata sotto aceto e acqua, per un’esperienza di sapori intensi e autentici
Mandragora
La mandragora, pianta avvolta in un’aura di mistero, era considerata dagli Etruschi una vera e propria pianta magica, capace di svelare segreti antichi e poteri arcani, tanto da essere persino utilizzata come aromatizzante per il vino.
Già conosciuta nell’antico Egitto, veniva ritenuta in grado di suscitare sogni rivelatori. La mandragora vanta una lunga tradizione come pianta magica, afrodisiaca, allucinogena e medicinale. Reperti archeologici egiziani risalenti al XIV secolo a.C. (durante la XVIII dinastia) testimoniano la conoscenza delle proprietà di questa pianta. Nel Papiro di Ebers viene citata per vari usi: insieme al fiore di loto e al papavero da oppio – altre piante con proprietà psicoattive – veniva impiegata per la preparazione di unguenti in grado di indurre stati ipnotici, estatici e di trance. Questa pianta contiene alcaloidi che effettivamente possono provocare visioni, sensazioni di volo e impressioni di mutazione fisica.
Rafano
La radice carnosa del rafano, con il suo caratteristico sapore pungente, affonda le radici in un passato lontano e misterioso, divenendo un ingrediente prezioso per insaporire molteplici piatti. Il suo gusto deciso, dovuto all’olio essenziale che sprigiona, è intenso e piccante, accompagnato da un aroma forte e inconfondibile. Il rafano è conosciuto da secoli, non solo come alimento, ma anche come un potente alleato della salute, e viene celebrato in diverse regioni italiane. In Basilicata, ad esempio, è riconosciuto come prodotto agroalimentare tradizionale, mentre nel Triveneto è noto con i nomi di “cren” o “kren”.
Ma le sue qualità non si fermano qui. La tradizione popolare gli attribuisce una straordinaria varietà di proprietà terapeutiche, che spaziano da quelle antianemiche e antireumatiche a quelle depurative e digestive. È anche noto per i suoi effetti stimolanti, espettoranti, diuretici e calmanti, nonché per il suo ruolo nella stimolazione della digestione. Tra le sue virtù, però, spicca una in particolare che ha affascinato gli uomini sin dai tempi più antichi: le sue proprietà afrodisiache.
Ovidio stesso, nel suo Ars Amatoria, lo raccomandava come uno degli ingredienti essenziali per realizzare filtri erotici vegetali. Addirittura nel celebre Kamasutra, il rafano viene combinato con miele e latte in una ricetta afrodisiaca, simbolo di desiderio e passione.
Eppure, è legittimo domandarsi come mai una radice dal sapore tanto forte e dall’odore acre abbia saputo conquistare i palati di mezzo continente per secoli. La risposta risiede nei principi attivi contenuti nella sua radice, che, stando alle testimonianze storiche, erano già noti ai Greci intorno al 1000 a.C. e in Gran Bretagna, molto prima che i Romani approdassero sulle isole britanniche. La radice, di colore biancastro e con un odore tenue, nasconde al suo interno una forza straordinaria: se schiacciata, tagliata o grattugiata, libera un’essenza piccantissima, il solfocianato di butile, che può provocare irritazioni alle mucose e stimolare una forte lacrimazione. Per questo motivo, è consigliabile maneggiarla con cura, specialmente quando la si grattugia.
Nel campo della medicina popolare, il rafano è stato utilizzato da secoli come espettorante, particolarmente efficace nelle affezioni respiratorie come polmoniti e bronchiti. Si narra che, nel 2600 a.C., gli schiavi che lavoravano alla costruzione della piramide di Cheope, dopo le estenuanti giornate di fatica, trovassero ristoro proprio grazie al rafano, che li rinvigoriva con le sue proprietà energizzanti.
Oggi, il rafano continua a essere una delle piante più apprezzate in cucina, utilizzato anche per creare un surrogato del piccante wasabi, aggiungendo un tocco di carattere e storia a piatti che portano con sé l’essenza di secoli di tradizione.
Gioco del kottabos
Nei raffinati affreschi tombali tarquinesi, possiamo osservare scene di banchetti che rivelano un aspetto giocoso e celebrativo della cultura etrusca. Al termine del festino, i convitati, sdraiati comodamente sui klinai, si cimentano in un gioco di abilità che esprimeva l’armonia tra la convivialità e il piacere della musica. A turno, ciascuno lanciava il vino contenuto in una coppa contro un piattello metallico, posto in equilibrio su un’asta alta circa due metri. L’obiettivo non era solo quello di centrare il bersaglio, ma di generare dei suoni particolari, che poi venivano imitati come parte di un rituale ludico.
Questo gioco, noto come kottabos, consisteva nel lancio da parte dei giocatori del residuo della bevanda contro un dischetto (plastinks) posto in bilico su un’asta metallica (di circa 1 metro e 50 / 2 metri) terminante con una base, con lo scopo di farlo cadere su un altro piattello più grande che era fissato alla metà dell’asta.
Negli esemplari rinvenuti in Etruria l’asta generalmente termina con una figura umana (o un satiro) che a sua volta regge il dischetto. Il gioco richiedeva una sorprendente destrezza, tanto nella mira quanto nella capacità di produrre effetti sonori ben definiti. Il vincitore, celebrato per la sua abilità, veniva premiato con un riconoscimento speciale, che poteva consistere anche nell’affetto di uno dei giovani partecipanti al banchetto, un fanciullo o una fanciulla, scelta come compagna di gioco o di conversazione. Così, il kottabos non era solo un gioco di abilità fisica, ma anche un’opportunità di intrattenimento e di flirt, che aggiungeva un ulteriore livello di festosa partecipazione all’ambiente dei banchetti etruschi.
Alloro “Laurus nobilis”
Vulci, Necropoli di Ponte Rotto, Tomba François, 340-330 a.C.; Vel Saties raffigurato con l’abbigliamento trionfale etrusco (toga picta e corona d’alloro)
L’alloro ha una storia intrisa di significati simbolici e culturali che risalgono ai tempi antichi, specialmente nella mitologia greco-romana e etrusca. Durante i banchetti, gli aristocratici etruschi cingevano il capo con corona di alloro, ritenendo che il suo profumo aiutasse a mantenere la sobrietà, attenuando gli effetti del vino. Sacro ad Apollo, dio della sapienza, della musica e delle arti, l’alloro incarnava la gloria, la conoscenza e il successo. Le corone di alloro venivano posate sul capo dei vincitori dei Giochi Olimpici, simbolizzando la loro vittoria, onore e distinzione. Ma non solo: i poeti che ottenevano il massimo riconoscimento per il loro talento letterario venivano celebrati con una corona di alloro, diventando così “poeti laureati”, un titolo che attestava la loro eccellenza nella scrittura. Questo legame tra l’alloro e il riconoscimento delle capacità intellettuali ha attraversato i secoli, facendolo divenire un emblema di successo e distinzione, tanto che ancora oggi, in molte culture, l’alloro è utilizzato nelle cerimonie di laurea, mantenendo vivo il suo legame con il mondo accademico.
Ma l’alloro non era solo un simbolo di onore e conoscenza, bensì un elemento fondamentale in vari rituali religiosi e pratiche di purificazione.
Nell’antichità, si credeva che l’alloro avesse poteri protettivi e purificatori. Le sue foglie venivano bruciate durante le cerimonie per scacciare le malattie e favorire la fortuna. Si pensava che il fumo dell’alloro avesse la capacità di purificare l’aria e allontanare gli spiriti maligni, rendendolo così un elemento sacro nelle pratiche religiose.
Inoltre, l’alloro è da sempre un simbolo di protezione nella tradizione popolare. Una foglia di alloro portata come amuleto si riteneva potesse difendere dai fulmini e attirare buona sorte. Ancora oggi, in molte culture, l’alloro è considerato un talismano di fortuna e protezione, utilizzato in rituali e tradizioni locali per invocare benedizioni e scacciare le negatività.
L’alloro, dunque, non è solo una pianta dal profumo intenso e dal sapore unico, ma anche un potente simbolo di speranza, protezione e sapienza, che ha attraversato i secoli rimanendo ancorato alle tradizioni popolari e culturali di diverse civiltà.
Il Simposio
Simposio arcaico non era semplicemente un banchetto, ma una cerimonia complessa che intrecciava aspetti religiosi, culturali e politici. Era un momento di comunanza in cui i partecipanti condividevano pensieri, idee e progetti, un’occasione di dialogo e riflessione collettiva. In questo contesto, un ruolo fondamentale era svolto dalla mousike techne, l’arte delle Muse, che comprendeva poesia, musica e danza, elementi essenziali di una società che attribuiva grande valore alla cultura e all’arte.
Nella tradizione omerica, erano gli aedi, i cantori ufficiali, a celebrare le gesta eroiche, ma nel simposio, il protagonismo era condiviso tra i commensali stessi, che, a turno, declamavano versi poetici. Passandosi di mano in mano un ramo di mirto, simbolo di convivialità, e accompagnandosi con strumenti musicali, i partecipanti diventavano protagonisti attivi di quella che era, a tutti gli effetti, una performance collettiva. La poesia e la musica si intrecciavano per creare un’esperienza immersiva, dove ogni commensale, anche il più umile, poteva esprimere il proprio talento e partecipare alla creazione culturale del momento.
Accanto alla ricca produzione lirica, destinata in molti casi agli hetaroi — gruppi di aristocratici che condividevano ideali politici e momenti di vita — sono le rappresentazioni della ceramica attica a offrirci una straordinaria testimonianza del simposio. Le scene raffigurano i commensali adagiati sulle klinai, i letti del banchetto, che si abbandonano alla recitazione di versi, accompagnati dal suono degli strumenti musicali. Le immagini di questi banchetti ci mostrano una pratica sociale dove la musica e la poesia erano indissolubilmente legate alla convivialità.
Nel simposio, alcuni strumenti musicali erano particolarmente simbolici. La lyra, strumento a sette corde ricavato dal carapace della tartaruga, era forse il più caratteristico. Secondo il mito, fu inventata da Hermes e ogni commensale doveva saperla suonare, altrimenti rischiava di essere considerato incolto. Accanto alla lyra, c’erano la kithara (una lira più grande e complessa), il barbiton, strumento originario dell’Asia Minore simile alla lyra ma con un registro più grave, e l’aulos, uno strumento a fiato con ancia, simile al moderno oboe, che veniva suonato spesso da auletrides, donne musiciste, che durante il simposio intrattenevano i partecipanti con la loro abilità musicale.
Talvolta, nelle rappresentazioni vascolari, si vedono anche suonatrici di krotala, un tipo di nacchere, strumenti percussivi usati per scandire il ritmo. Queste donne, di solito di origine servile o etere di professione, erano le uniche ad avere accesso al simposio, dove la partecipazione femminile era altrimenti limitata.
Il simposio non era solo un luogo di piacere sensoriale, ma anche un’occasione per esprimere e celebrare la cultura attraverso la musica, la poesia e la danza, creando un’atmosfera di intima comunità culturale e di riflessione collettiva. Era, insomma, un’arte del vivere, in cui il banchetto diventava il palcoscenico ideale per la creazione artistica condivisa.
Lampascioni
Oribasio, il medico greco di Bisanzio (403-325 a.C.), fu il primo a chiamarlo lampascione. Questo piccolo bulbo dal caratteristico profumo pungente è molto più di un semplice ingrediente gastronomico: è un vero e proprio tesoro di Puglia, riconosciuto come Prodotto Agroalimentare Tradizionale. Usato sia come alimento che come rimedio, il lampascione accompagna l’uomo sin dai tempi più remoti, e addirittura i suoi pollini sono stati rinvenuti in reperti archeologici del Medio Paleolitico, nei siti di Shanidar IV, nel Kurdistan iracheno. La sua storia, intrecciata con quella delle antiche civiltà, è un viaggio che attraversa millenni.
Già gli Egizi, i Greci e i popoli dell’Asia Minore ne apprezzavano le straordinarie virtù terapeutiche e nutrizionali. In Italia, furono i Sanniti a introdurre il suo uso, e ben presto i Romani, affascinati dalle sue proprietà, iniziarono a coltivarlo.
Gli Etruschi e i Romani lo considerassero un potente afrodisiaco, tanto che veniva offerto agli sposi nella prima notte di nozze con miele e herba salax, la rucola selvatica, per stimolare il desiderio. Non è un caso che Ovidio, il poeta delle passioni, ne esaltasse le qualità nei suoi “Ars Amatoria”, mentre Columella, nel I secolo d.C., celebrava le sue proprietà in un passaggio evocativo: “…e vengano da Megara i fecondatori semi di bulbo che eccitano gli uomini, armandoli per le fanciulle, mentre dalla Numidia giungono quelli raccolti sotto le zolle dei Getuli, insieme alla ruchetta seminata vicino al fecondatore Priapo, per risvegliare all’amore i mariti addormentati.”
Le virtù terapeutiche e afrodisiache del lampascione sono state riconosciute nel corso dei secoli da numerosi medici, botanici e scrittori, sia antichi che moderni. Cassitto, in particolare, si sofferma sulle sue proprietà, documentando come il lampascione fosse noto già nell’antico Egitto. Nel 1888, il dottor Curci, durante le sue ricerche farmacologiche sul Muscari comosum, scoprì che l’acqua di cottura del lampascione possedeva proprietà espettoranti. Trenta anni dopo, Oreste Mattirolo, direttore dell’Orto Botanico di Torino, riconobbe l’importanza di questo bulbo nell’antichità greca e romana, testimoniata anche da autori illustri come Dioscoride, Teofrasto, Plinio e Galeno, che lo menzionano nelle loro opere.
Vino in cucina
L’uso del vino in cucina affonda le radici nei tempi antichi, ben prima dell’invenzione del frigorifero. Già gli Etruschi e i Romani conoscevano i suoi molteplici impieghi gastronomici. Le testimonianze storiche ci raccontano che, in un’epoca in cui la conservazione dei cibi era una vera sfida, il vino veniva impiegato anche come conservante, in particolare per la carne. Immergendola nel vino per ore, e talvolta per giorni, la carne subiva un trattamento che oggi chiameremmo marinatura, ma che all’epoca era un’arte culinaria necessaria per mantenere i cibi freschi e saporiti.
Non solo conservante, ma anche protagonista in cucina: il vino, infatti, veniva utilizzato come base di cottura per insaporire i piatti. È così che nascono piatti tradizionali come il brasato e lo stracotto. La scelta di cuocere con il vino anziché con l’acqua non era solo una questione pratica, ma anche di gusto.
Il vino, con il suo profumo e le sue sfumature aromatiche, infondeva alle pietanze un sapore più ricco e avvolgente, trasformando ogni boccone in un’esperienza sensoriale unica.
Antichi ricettari ci testimoniano l’uso del vino in una varietà di piatti, non solo con la carne, ma anche nelle zuppe, nelle verdure e persino nei dolci. Il vino bianco, con la sua leggerezza e freschezza, è l’ingrediente ideale per zuppe chiare, piatti a base di pollame o pesce, ma anche per dolci e ricette a base di frutta, dove aggiunge un tocco delicato e aromatico. Il vino rosso, più corposo e intenso, esalta invece il sapore delle zuppe scure, delle salse e delle carni, arricchendo ogni piatto con il suo carattere deciso.
Tastevin – patera in vernice nera
Anche questa volta, i francesi sono arrivati secondi; gli Etruschi, grandi maestri nella produzione e nel commercio del vino, non solo conoscevano il segreto delle vigne, ma erano anche abili artigiani di meravigliose attrezzature per la loro bevanda sacra. Crateri, attingitoi, cantari, anfore, kylix, oinochoe, lagini e tra tutti, il tastevin-patera in vernice nera, oggi custodito gelosamente al Museo Archeologico di Vulci, raccontano una storia di eleganza e competenza. Il tastevin, che oggi appare come una piccola ciotola di argento o metallo argentato, affonda le sue radici in un passato lontano, quando era lo strumento perfetto per assaporare con un solo sguardo e un rapido gesto la qualità del vino. Le sue forme delicatamente scolpite, la sua funzione semplice ma profonda, racchiudono un’arte che si è tramandata nei secoli.
Olivastro
Olea europea oleaster
Olivastro – Raccolto nei pendii etruschi della Valle del Fiora
Secondo la leggenda, l’olivastro, pianta originaria dell’Asia Minore, fu portato in Grecia da Ercole, che ne ricavò la sua clava potente. Alle Olimpiadi, i vincitori delle gare ricevevano in premio una corona di olivastro, i cui rami dovevano essere tagliati solo con un falcetto d’oro, simbolo di nobiltà e vittoria.
Fu in Siria che l’olivastro generò l’olivo domestico, che si diffondeva poi in tutta la regione mediterranea grazie ai Fenici, abili commercianti e pionieri.
A Vulci, tra le pietre degli antichi templi etruschi, si trovano ancora piante di olivastro, i cui frutti danno un olio straordinario, inconfondibile, che richiama i profumi e i sapori di un passato lontano, quello degli Etruschi. Un olio che non è solo un condimento, ma una vera e propria esperienza sensoriale, capace di raccontare storie di terre dimenticate e di uomini che vivevano in armonia con la natura.